29 agosto 1862, Garibaldi ferito dai bersaglieri Ricordiamo sempre l'Aspromonte Gli amici del Pri calabrese, su iniziativa dell’onorevole Francesco Nucara, ricordano ogni anno lo scontro di Aspromonte e si recano il 29 agosto a Gambarie presso il cippo dove Garibaldi ferito ad una gamba e ad un piede venne soccorso. Il piombo che venne cavato dalla carne del generale, non era austriaco o francese, era piemontese. Fu un fucile di un bersagliere a ferire Garibaldi nel 1862, che avevano palle da sprecare contro quella che il primo ministro del Regno, Rattazzi, definiva la “feccia garibaldina”. Mazzini quando seppe della ferita di Garibaldi, nonostante i rapporti fra di loro fossero già divenuti difficili, ebbe uno scatto d’ira funesta, per dirla con l’Ariosto, tanto da invocare l’omicidio, il pugnale e le bombe contro casa Savoia ed i suoi ministri. E si che all’inizio dl 1862 era stato il primo ministro Bettino Ricasoli, a contattare Giuseppe Garibaldi per tornare a prendere le armi e completare l’opera. Solo che Ricasoli questa sua ammirazione insurrezionale la pagò con il posto, fu costretto alle dimissioni ed al suo posto Vittorio Emanuele affidò l'incarico a Urbano Rattazzi. La politica non era il forte di Garibaldi. Incurante di quanto avvenuto, il marzo di quell’anno Garibaldi era stato a Genova per presiedere i lavori dell'assemblea dei gruppi democratici e delle società operaie, lavori che condurranno alla fusione delle associazioni mazziniane con quelle garibaldine. Influenzato da Lassalle, Garibaldi vuole riavvicinarsi a Mazzini. Lassalle lo convince che il compimento dell’unità italiana è possibile soltanto se poggia su un vasto movimento rivoluzionario in grado di coinvolgere la Prussia, l'Austria nonché le nazioni soggette alla dominazione asburgica. Il rivoluzionario tedesco vede in Garibaldi l’uomo in grado di mettere a ferro e fuoco un’area che si estende da Mantova a Galatz. Non si può più aspettare. Secondo Lassalle, viviamo in un’ epoca che non appartiene al diritto giuridico, “ma soltanto ed esclusivamente ai fatti”. Garibaldi è entusiasta, ma vuole restare comunque sotto le insegne di casa Savoia. L’affabilità del re nei suoi confronti lo ha sedotto. Per celebrare l’anniversario delle 5 giornate, Garibaldi si reca a Monza, a Como, a Lodi, Parma, Cremona, Pavia e Brescia. Ovunque è un tripudio di folla. A Milano riceve l’omaggio di Manzoni. I municipi lo albergano a loro spese, i prefetti lo invitano, l'esercito lo acclama; dovunque arriva, una turba immensa di popolo lo attende sotto la pioggia o il sole. E cosa gli grida la folla? “Roma e Venezia”. La situazione gli appare preinsurrezionale. Vittorio Emanuele ha altri piani e Garibaldi non se ne accorge. Tantomeno il generale sembra rendersi conto che dopo le elezioni del 1861 la fazione della sinistra democratica schierata con la monarchia sabauda, è diventata un partito costituzionale e legalitario. Il 5 maggio, a Quarto. Alberto Mario, Antonio Mosto e Agostino Bertani si dicono apertamente contrari a nuove spedizioni militari. Francesco Crispi scimmiottando Lassalle, sostiene che un'azione su Veneto e Trentino non può avere successo se non è preceduta da un'insurrezione in tutta Europa. Vittorio Emanuele, convinto di poter disporre del generale come un pupazzo conta dirottarlo a sud, e mise suo figlio Menotti a capo di due battaglioni di bersaglieri che avranno il compito di combattere il brigantaggio negli Abruzzi e in Puglia. Garibaldi è riconoscente ma non desiste dal progetto di invadere il Trentino. Qualche giorno e il governo sabaudo fa arrestare due leader garibaldini, Francesco Nullo e Giuseppe Roberto Ambiveri, assieme a un centinaio di giovani pronti a mettersi in marcia. Alla protesta della città di Brescia, la polizia apre il fuoco contro la folla provocando quattro feriti e tre morti, tra cui un ragazzo di quattordici anni. Garibaldi nemmeno crede che soldati italiani possano aver ammazzato e ferito fanciulli e donne inermi. Il generale vorrebbe innalzare un monumento a Popof, ufficiale russo, che ruppe la sciabola quando gli comandarono di caricare il popolo inerme di Varsavia. Il generale sdegnato chiede a Vittorio Emanuele una luogotenenza per il Mezzogiorno che ovviamente non gli viene data e si imbarca lo stesso. L'8 luglio è a Palermo dove di nuovo viene accolto da folle in tripudio quando i principi Umberto e Amedeo, in visita sull’Isola, erano stati appena considerati. Garibaldi torna a volare sulle ali dell’entusiasmo. Il 15 luglio si scaglia contro Napoleone III, imponendogli di sgombrare Roma. È la scintilla che scatena l’incendio. Garibaldi si reca a Sciacca, a Corleone, a Partinico, Alcamo, Calatafimi. Il 19 luglio è a Marsala, di nuovo a dialogare con la folla sempre più densa che lo segue. Non si accorge che la massa dei nuovi volontari è molto diversa da quella del 1860. Vagabondi, giovani disoccupati, emarginati, sono il suo primo bacino di arruolamento. Vittorio Emanuele attaccherà con un proclama quei giovani inesperti e illusi, dimentichi dei loro doveri, che vogliono dirigere in assetto militare alla volta di Roma. Garibaldi è accusato di aver posto “il suo braccio e la sua rinomanza al servizio della demagogia europea”. Nino Bixio lo abbandona e resta nell’esercito regio. I senatori Calvino e Fabrizi gli chiedono di rinunciare alla marcia su Roma. Medici gli scrive che c'è il rischio di scatenare una guerra civile. Garibaldi oramai è lanciato come un treno in corsa. Il 24 e il 25 agosto sbarca in Calabria. Lo attendono i tremilacinquecento soldati comandati del generale Enrico Cialdini. Sono truppe scelte che conoscono il territorio e combattono i briganti da anni. Garibaldi non se ne cura. I garibaldini vengono attaccati sull'altopiano di Aspromonte all'alba del 29 agosto 1862. Nemmeno un quarto d'ora e tutto è finito. Garibaldi viene colpito da due proiettili, I suoi si arresero e quelli che non si arresero fucilati. Garibaldi sarà trasportato a La Spezia e rinchiuso nella prigione di Varignano. Rattazzi ne approfittò per imporre una svolta autoritaria sciogliendo le organizzazioni mazziniane e chiudendo i loro giornali. L'Aspromonte fu una sconfitta personale di Garibaldi, e una sconfitta politica per l'ala rivoluzionaria dello schieramento democratico. A fine novembre, nel dibattito parlamentare sui fatti d'Aspromonte, il presidente del Consiglio, Urbano Rattazzi sostenne con orgoglio che il governo aveva “dato prova di avere autorità e forza e nel Paese e fuori”. Vittorio Emanuele era dispiaciuto, invece. Voluto mettere un suo figlio, il principe Amedeo, sul trono di Atene avrebbe avuto bisogno che Garibaldi andasse in Grecia per sostenere la rivolta contro il re Ottone di Wittelsbach. Se lo dovette scordare. Roma, 31 agosto 2015 |